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dove mangiarlo a Genova e dintorni | La Cucina Italiana

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Sapete dove mangiare il miglior pesto genovese a Genova e dintorni? Il pesto è conosciuto e riconosciuto come uno dei sughi iconici italiani. Pinoli, parmigiano reggiano, olio extra vergine di oliva, basilico fresco, aglio e c’è chi mette il pecorino DOP. Comunque lo si faccia il pesto piace sempre a tutti ed è buonissimo in qualsiasi modo. Ogni famiglia ha una ricetta, ogni mamma o nonna ha un segreto. In Liguria lo si mangia con le trofie o con le trenette, o, anche, con i testaroli se si scende nel profondo levante. Ma se non lo si ha pronto in casa o lo si vuole assaggiare tipico in loco, dove andare a mangiare il miglior pesto genovese a Genova e provincia?

6 ristoranti dove mangiare il miglior pesto a Genova e provincia

Il Genovese

Il ristorante nasce nel 1912, con il nome di RAGGIO. Si trattava esattamente di un farinotto, detto ancora più anticamente Sciamadda, ovvero di un posto dove si preparava la farinata nel forno a legna, forno che è ancora presente all’interno del locale. Negli anni oltre alla funzione di asporto si sono aggiunti alcuni tavoli, per arrivare alla creazione della cucina negli anni 50. Oltre alla farinata venivano preparate le classiche torte di verdura e i fritti della gastronomia di strada genovese. Alla fine degli anni 90 Il Genovese viene dedicato interamente all’attività di ristorazione, volendo conservare l’anima e la vocazione del locale. Il Genovese è noto per il suo incredibile pesto, ormai amato in tutta Italia. Qui si usa solo il Parmigiano Reggiano di 24 mesi di stagionatura oltre che l’olio extravergine d’oliva 100% italiano, sia in cucina sia in frittura.
Indirizzo: via Galata, 35r, 16121 Genova GE

La Raibetta

Nell’anno 1314 si edificò la contrada dove si vendono i legumi e qualche frutto, la quale volgarmente si nomina Reba, che è vocabolo moresco, e raba in quella lingua significa repertorio di biade. “Reba” in arabo si pronuncia con la “e” molto larga, quasi “raiba” e quel mercato di legumi fu detto Raibetta, cioè piccolo mercato, per distinguerlo dalla Raiba, mercato dei cereali che esisteva vicino a Palazzo San Giorgio. Da Raiba deriva il termine “rabenieu” che nel dialetto genovese sono i venditori di commestibili, e anche il nome “rebue”, cioè le castagne bollite e sbucciate come venivano vendute in Raibetta sino alla fine dell’Ottocento.
Ecco che qui si possono trovare piatti tipici della tradizione ligure come le trofiette al pesto, i testaroli al pesto o le “avvantaggiate”, pesto patate e fagiolini.
Indirizzo: vico Caprettari, 12r, 16123 Genova GE

Il Trofiaio

Quella del Trofiaio è un’azienda familiare e proprio perché tale riesce a garantire tutti i valori che ognuno di noi cerca in un piatto fatto in casa: genuinità, attenzione agli ingredienti, e tradizione, che confluiscono nei piatti della tradizione ligure. La pasta fresca genovese è infatti una delle colonne della cucina italiana e qui si cerca di rendere onore alle grandi ricette genovesi e liguri rispettando la ricetta originale, spaziando anche in proposte della tradizione italiana più vasta. Questa pasta, con il loro pesto tradizionale fatto in casa, è perfetta per una pausa pranzo.
Indirizzo: piazza Colombo 10-12R

L’Acciughetta

Nell’angiporto storico della città, tra via Prè e via Gramsci all’altezza del Galata Museo del Mare, la Trattoria dell’Acciughetta si definisce una delle trattorie «più piccole e pazze della città». Tutte le creazioni dell’Acciughetta derivano dalla fantasia, dai viaggi personali e collettivi, dallo studio delle tecniche; un connubio di cultura che i propietari cercano di esprimere nei piatti senza, essendo però accessibile a tutti perché l’intento è che i giovani si avvicinino sempre più alla ristorazione e ne amassero i diversi aspetti. Il menù è in costante evoluzione: usano tantissimi ingredienti liguri e tantissime ricette tradizionali che poi evolvono, vengono distrutte e ricostruite, eseguite e modificate, vissute da tutto lo staff e condivise con la clientela.
Indirizzo: piazza Sant’Elena, 16126 Genova GE

U giancu

È difficile descrivere questo locale. Eclettico, colorato, vivace, vivo e sincero sono solo alcune delle parole che lo descrivono. Sperso nelle stradine liguri sopra Rapallo, spunta U Giancu, un luogo in cui magia, gioco e cibo si uniscono per mangiare bene e in compagnia. La sensazione che si prova entrando è un misto di allegria, felicità e spensieratezza mescolata con un buon appetito. Alle pareti ci sono oltre 700 disegni originali, moltissimi dei quali dedicati, fatti da autori di tutto il mondo. Alcuni fanno sorridere, altri fanno pensare. Quello che il proprietario spera è che «ti ci facciano sentire bene», a tuo agio. Con la gioia di esserci e la voglia di tornarci.
In estate, spesso capita che pesti… il basilico! Ottimo per accompagnare la pasta fresca fatta in casa e insaporire il classico minestrone genovese.
Indirizzo: via S. Massimo, 78, 16035 San Massimo GE

La Brinca

Non ci sono descrizioni per questo luogo che si vuol far trovare fra i quasi monti liguri e il mare a pochi passi. La Brinca oggi più che un ristorante è un’istituzione, è simbolo di qualità, tradizione, territorio e convivialità. La Brinca, soprannome al femminile di Texinin (Teresina) dei Brinche, visse e lasciò il nome a questa casa colonica a metà dell’Ottocento. Nel 1987 la famiglia la trasforma in trattoria e caneva con fùndego da vin, cioè osteria con bottega e cantina come si usava dire allora. Brinca, Brincu, Briccu, nell’antica etimologia Ligure significa luogo scosceso, ripido: ripide e dure come lo sono le terre liguri. La Brinca propone i piatti di terra della tradizione contadina della Liguria di Levante, legata ai prodotti locali e alle stagioni. Prebugiun di Ne, Panella, Panissa, Baciocca, Frisciulle, Testaieu, Picagge, Tuccu, Tomaxelle, Sancrau, Panera, sono solo alcuni degli antichi nomi che ricordano gusti antichi, rivisitati con gentilezza e serviti per raccontare la storia e la cultura della Liguria. Ma se c’è qualcosa per cui vale davvero la pena passare da quest’osteria e fermasi è il pesto, fatto solamente al mortaio, con gli ingredienti tipici, che porta mente e spirito in un altro mondo.
Indirizzo: via Campo di Ne, 58, 16040 Ne GE

MasterChef: chi è Chiara Pavan e cos’è la cucina ambientale?

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Scopriamo insieme chi è l’ospite chef a MasterChef, la cuoca Chiara Pavan, che spesso avrete ritrovato nei nostri articoli online e tra le pagine del ricettario della nostra rivista.

Il futuro è green, anche in cucina, e MasterChef, nella puntata di questa sera, esplorerà proprio le nuove frontiere della sostenibilità. Nell’ultimo skill test della stagione, dedicato a una cucina che si prende cura del territorio attraverso la valorizzazione dei suoi ingredienti, i giudici Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli accoglieranno un’ospite speciale, Chiara Pavan del ristorante Venissa (una stella verde Michelin), che si trova sull’isola di Mazzorbo a Venezia. La chef racconterà ai concorrenti la sua cucina ambientale, che descrive il territorio circostante e, allo stesso tempo, riflette sull’impronta che vi lascia.

Veronese, 39 anni, Chiara Pavan è laureata in Filosofia con una tesi in Filosofia della Scienza a Pisa. Da sempre appassionata di cucina, dopo aver conseguito il diploma ad Alma, la scuola di alta cucina in provincia di Parma, ha fatto esperienza da Caino a Montemerano, a fianco della chef Valeria Piccini, ed è approdata al Venissa con Francesco Brutto (che adesso è anche il suo compagno di vita).

Solo i prodotti del proprio microcosmo

Insieme curano i menù del ristorante, e i loro piatti sono soprattutto a base dei frutti del loro orto, per trasmettere il forte legame con il territorio. «L’orto di Venissa ci permette di lavorare con prodotti sempre freschi, non trattati in alcun modo, unici perché crescono in un terreno ricco di sale, e soprattutto che hanno un’impronta carbonica decisamente più bassa, non avendo bisogno di trasporto per arrivare fino al ristorante», spiega la chef su Instagram. Certo, il progetto è molto ambizioso, e spesso complesso: «Talvolta è davvero difficile cucinare con prodotti provenienti solo dal proprio microcosmo, seguendo stagionalità che sono sempre più incerte. Eppure l’idea di cucina ambientale si basa principalmente su questo. In quest’ultimo anno, vedendo la laguna così in sofferenza ci siamo datə un sacco di limiti: verdure provenienti dal nostro giardino sull’isola o da orti di prossimità; solo quattro-cinque specie invasive; farine localissime più complicate da lavorare. Ma quanto è difficile?! Quanto sarebbe più facile usare pesci più comuni (oramai sempre meno presenti nei nostri mari), carne, cioccolato, prodotti esotici squisiti (e pensare che noi non usiamo nemmeno il limone…dando acidità con l’uva acerba di recupero del diradamento della vigna)».

Meno proteine animali

Molte delle proposte del Venissa sono a base vegetale: Chiara Pavan spiegherà ai concorrenti di MasterChef che «uno dei compiti principali di noi chef/fe oggi è dimostrare che le pietanze a base vegetale sono soddisfacenti tanto quanto quelle a base di proteina animale. Essendo i sistemi alimentari e il modo in cui mangiamo responsabili di un’alta percentuale di emissioni gassose e inquinamento, negli ultimi anni ho ripensato molto a cosa significhi davvero applicare principi di sostenibilità in cucina. Sembra scontato ma non lo è: la cosa più importante è promuovere una dieta povera di proteina animale e ricca invece di vegetali legumi e cereali. É fondamentale inoltre approvvigionarsi da coltivatori e produttori che condividono con noi gli stessi valori di cura dell’ambiente e dell’ecosistema».

Fra le verdure che, da buona veneta, preferisce, c’è il radicchio. «In Veneto il gusto amaro fa parte della cultura culinaria ed è particolarmente apprezzato. L’amaro è un’abitudine, ci riporta ai sapori del campo, dell’inverno con i radicchi, ma anche della primavera (con il tarassaco, le erbe spontanee e, in particolare, le cicorie)».

Trasformare i problemi in opportunità

Ma Chiara Pavan va oltre: cerca di sfruttare la flora e la fauna invasive per trasformare i problemi in opportunità. Prendiamo, ad esempio, la salicornia. «Negli ultimi due anni la presenza di piante alofite in laguna è molto aumentata. La causa è direttamente legata al cambiamento climatico: la risalita del cuneo salino, inasprita dalle siccità di questi anni, che ha portato ad un aumento della percentuale di sale nel suolo. La situazione nell’Italia nord orientale è piuttosto grave e non se ne parla ancora abbastanza. L’anno scorso a Venissa abbiamo perso vari alberi da frutto e una parte di vigneto. Le vittime di questo aumento della salinità del suolo sono proprio le produzioni agricole e la biodiversità. Solo le piante che tollerano un’alta percentuale di sale riescono a sopravvivere e a diffondersi dando forma a vere e proprie distese di salicornia e “sue sorelle”. A mio avviso, come per la situazione dei granchi blu, l’emergenza climatica va affrontata prima che sia troppo tardi ma anche con uno sguardo creativo: le piante alofite si possono usare in cucina, sono buonissime e hanno interessanti proprietà nutritive».

Le proteine alternative alla carne

Fra le proteine alternative al consumo della carne, la chef, da un paio di anni, ha introdotto in menu anche la rapana venosa, un gasteropode originario del mare del Giappone, già da qualche decennio arrivato nell’alto Adriatico, probabilmente – come il granchio blu – attraverso le zavorre delle navi. Si presta per cotture sia lunghe, che molto veloci. Un’altra specie aliena servita nel menu è l’anadara inaequivalvis, detta anche scrigno di Venere: è un mollusco bivalve estremamente invasivo che, come la rapana, si nutre di molluschi locali, contribuendo alla perdita di biodiversità e alla trasformazione degli ecosistemi marini. Esteriormente è simile alla vongola, ma ha un gusto singolare e tanta emoglobina quanto (in percentuale) il manzo. Chiara Pavan e Francesco Brutto ne hanno ricavato una sorta di «panna cotta» e la servono anche cruda, condita con olio all’aglio, allo zenzero, rapa lattofermentata, finocchio di mare, potentilla ed erba ostrica. «Nuove specie invasive, cereali tolleranti alla siccità, insetti e carne coltivata», promette la chef, «saranno ingredienti che accoglieremo con curiosità».

I dolci di Carnevale italiani: tante ricette

I dolci di Carnevale italiani: tante ricette

Chiacchiere, castagnole, pignolata, cicerchiata: i dolci di Carnevale italiani sono tanti e variegati. oltre che tutti ovviamente buoni e golosissimi. Ma a scorrere le ricette, sorge spontanea una domanda: perché, a qualsiasi regione appartengano, sono tutti (o quasi) fritti?

Perché i dolci di Carnevale sono fritti?

Friggere è storicamente legato alla necessità di preparare velocemente i dolci per offrirli a quante più persone possibile e soprattutto a basso costo (un po’ le origini della pizza fritta). Ecco perché anche a Carnevale si frigge l’impossibile. Negli anni, lungo tutto lo Stivale, si sono radicate nella tradizione tantissime ricette di dolci fritti che allietano il periodo di Carnevale: croccanti, soffici, ripiene, fragranti con tanto zucchero e colori. Le feste in maschera si festeggiano così. Ma ciò che rende importante e unica la varietà delle ricette delle regioni italiane è l’innumerevole patrimonio di usanze che legano il Carnevale ai dolci. Qualche tempo fa ogni regione usava i prodotti locali, oggi le tradizioni si sono lasciate contaminare dalle esigenze di mercato.

I dolci di Carnevale tradizionali in tutta Italia

Assodato che i dolci tipici di Carnevale sono perlopiù fritti, le ricette per prepararli sono spesso diverse da regione a regione: a volte la stessa ricetta – con leggerissime varianti o addirittura uguale – prende anche un nome diverso secondo l’area geografica. Succede con le chiacchiere, prodotte in tutta Italia ma chiamate in Toscana cenci, sfrappole in Emilia, bugie in Liguria e in una parte del Piemonte, crostoli in Friuli, Trentino e in alcune zone del Veneto, frappe a Roma e galani a Venezia e Verona. E succede con le castagnole, altro dolce simbolo di Carnevale, diffuso in tutto il Paese, ma nato nell’Italia settentrionale, a Bordighera. Le frittelle dolci con un cuore soffice – dette anche favette o tortelli, sono così chiamate per la loro forma che ricorda vagamente quella di una castagna. Tra i dolci più tradizionali, rientrano anche altre le frittelle di mele, chiamate in Alto Adige Apfelkiechl, e realizzate con fette di mele spesse, rivestite da una pastella croccante.

I dolci di Carnevale del Nord Italia

Se in Lombardia la tradizione del Carnevale ambrosiano vuole che si friggano i làciàditt a base di mele, nel Mantovano si preparano i riccioli (in dialetto, risulèn) ovvero dei biscotti preparati con la farina di mais macinata molto sottile (fioretto), a cui si aggiunge burro, zucchero, strutto, tuorli d’uova e scorza di limone grattugiata. Dal lato opposto, nel Nord Est, a farla da padrone ci sono le le fritole veneziane, arricchite con uvetta e pinoli. E i krapfen dall’Alto Adige (oltre alle frittelle di mele) che qui vengono chiamati Faschingskrapfen, ossia “krapfen del Carnevale”.
In Piemonte è viva la tradizione dei farciò, frittelle del carnevale alessandrino che si differenziano dalle castagnole perché sono gonfie e vuote all’interno, e di dimensioni più importanti, che possono anche essere guarnite con crema pasticcera. Senza contare il fatto che qui le chiacchiere si chiamano bugie.

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