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Mela e longevità: come usare in cucina il frutto della salute

La Cucina Italiana

Proprio come i vini, nel ricettario di Mela Val Venosta, ogni varietà di mela è abbinata ad altri ingredienti sia per potenziarne gli effetti nutrizionali, sia per esaltarne il sapore. Tanto per cominciare, come aperitivo, troverete la ricetta di un infuso di tè verde e mela Pinova, che si caratterizza per note floreali e un equilibrio di dolcezza e acidità. Perché sono stati messi insieme? «La mela consente di assorbire il 100% di epigallocatechina del tè verde, un importante polifenolo, il cuo assorbimento invece si riduce sensibilmente se il tè si abbina, come spesso si fa, al latte» spiega la dottoressa Manzi.

Come usare le mele per ridurre gli zuccheri

Come antipasto, poi, c’è una caponata con carciofi, sedano, pomodoro e mele Red Delicious, usate in questo mix perché con la propria tipica dolcezza bilanciano perfettamente gli ingredienti della ricetta che altrimenti in genere richiede l’utilizzo dello zucchero. Altra idea? Tra i piatti del menù, provato per voi a Bologna nel ristorante della dottoressa Manzi, abbiamo apprezzato particolarmente il riso nero nero con mela Granny Smith e nocciole, in un abbinamento amico del cuore che unisce la protezione antiossidante della vitamina E delle nocciole al potassio della mela.

A cosa abbinare le mele nei piatti salati

«La mela è il cibo della salute, un superfood, e con i giusti abbinamenti se ne possono potenziare gli effetti» spiega la dottoressa Manzi. «In generale suggerisco di accompagnarla ad altri cibi amici del cuore come il pesce e la frutta secca. Sono ricchi di grassi buoni e combinati al potassio e alla pectina della mela sono un mix decisamente vincente». La glicemia? «La mela, come tutti i frutti, contiene zucchero, ma in quantità ben miscelata con fibre e acqua. Mangiata fresca, in piccole quantità, non provoca picchi. Inoltre, con i giusti abbinamenti, aiuta anche a ridurre l’assorbimento».

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Melanzana, attenti al frutto nero

La Cucina Italiana

La vicenda della melanzana è tutta racchiusa nella storia della parola che la designa. Secondo le ipotesi più accreditate il suo nome deriva dall’incrocio tra l’arabo bādingiān e mela oppure dal greco bizantino melintzána (da mélas, «nero», in riferimento al colore scuro della buccia). Ma c’è anche un’interpretazione popolare, dal latino mala (mela, frutto) e insana, che rivela un’accoglienza iniziale tutt’altro che benevola. Portata in Europa nel Medioevo dagli Arabi attraverso la Sicilia e la Spagna, il frutto della Solanum melongena trova in Occidente vistose resistenze, tanto che nei ricettari medievali della nostra Penisola non ce n’è quasi traccia, perché era considerata nociva, capace persino di portare alla follia. È quanto emerge nel Novellino, raccolta fiorentina di novelle della fine del XIII secolo, in cui, in riferimento al pet(r)onciano (variante toscana e più antica di melanzana), si legge: «Maestro Taddeo, leggendo a’ suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di petronciani, che diverrebbe matto; e provavalo secondo fisica».

Melanzana: amore o sdegno?

Nel Nord Europa la melanzana è a lungo considerata una pianta ornamentale, e in Francia è addirittura ridenominata pomo d’amore; in Italia viene utilizzata in cucina solo a partire dal Cinquecento: lo dimostrano le risultanze di AtLiTeG, in cui la voce compare per la prima volta nel cosiddetto Cuoco Napoletano (manoscritto della fine del XV secolo), nella forma plurale marignani. Che a quel tempo l’ortaggio non fosse ancora totalmente riabilitato lo testimoniano i due più importanti trattati del Rinascimento: i Banchetti di Cristoforo Messi Sbugo e l’Opera di Bartolomeo Scappi. Nel primo, accanto alla forma mollegnane troviamo pome di sdegno; nel secondo, accanto a molignana ancora pomo sdegnoso. Parallelamente alle controindicazioni di carattere medico (come ebbe a scrivere Castore Durante nel suo Herbario Nuovo, l’uso smodato dell’ortaggio avrebbe arrecato «humori malinconici, oppilationi, cancari, lepra, dolor di testa»), sembra farsi strada l’idea della melanzana come cibo volgare, adatto alle mense popolari se non plebee. A ciò va aggiunto che, se per tutta l’età moderna la melanzana acquisisce nella cultura alimentare cristiana uno spazio limitato, essa occupa un posto d’onore in quella ebraica, sulla quale un tempo ricadeva un giudizio tutt’altro che positivo. Anche in questo caso, bisogna attendere la Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (1891) per avere maggiore chiarezza. Nella ricetta dei petonciani, variante preferita da Artusi in ossequio al modello fiorentino di lingua, si legge: «Petonciani e finocchi, quarant’anni orsono, si vedevano appena sul mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da ebrei, i quali dimostrerebbero in questo, come in altre cose di maggior rilievo, che hanno sempre avuto buon naso più de’ cristiani». Una strada lunga e faticosa, dunque, quella della melanzana, che oggi, a dispetto di ogni pregiudizio, è una regina della dieta mediterranea.

Che cosa è ATLITEG

L’Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dall’età medievale all’Unità è un progetto finanziato dal ministero dell’Università e Ricerca. Si esprimerà in una banca-dati testuale, un Vocabolario digitale e un Atlante, che riporterà su webGIS la distribuzione geografica e storica dei dati ricavati dai testi. La cartina mostra la distribuzione e le frequenze, in base alle risultanze del corpus di AtLiTeG, dei due tipi lessicali melanzana e petonciano, ben differenziati rispetto alla assenza/presenza in Toscana.

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