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Varvara, i fratelli che firmano la carne dei grandi ristoranti

Varvara, i fratelli che firmano la carne dei grandi ristoranti

Dai tre stelle Michelin alle trattorie di tendenza, la carne arriva da una piccola bottega di Altamura. Il nome Varvara compare nei menù più prestigiosi: siamo andati a trovarli, da dove tutto nasce 

Varvara. Un nome che sempre più spesso si trova scritto nei menù dei ristoranti, i più importanti. Non è una razza bovina, una località o un metodo di allevamento, ma il cognome di una famiglia di macellai che da Altamura ha conquistato l’Italia. Dal 1852 i Varvara, originari di Gravina, incominciarono la loro storica avventura nel mondo della macelleria, stringendo amicizie tra gli allevatori delle masserie circostanti e vendendo le loro pregiate carni con un carretto nei mercati della zona. Oggi con un furgone, i “fratelli di carne” figli di Antonio (Michele, Vincenzo e Alessandro) Varvara raggiungono i ristoranti più rinomati d’Italia: dai tre stelle Michelin Piazza Duomo ad Alba ad Enrico Bartolini al Mudec, fino alle trattorie come Trippa usano la loro carne.

Dal 1950 ad Altamura

Correva l’anno 1950: il bisnonno decise di trasferirsi ad Altamura, per amore di Nicoletta e con lei aprirà la prima bottega. Le parole di Michele ci fanno rivivere tempi andati dove in quella macelleria il padre Antonio, ancora ragazzino, si metteva in piedi su di uno sgabello per raggiungere il bancone e imparare il mestiere. La bottega è da sempre la loro casa, ci è cresciuto lì, è stato allattato dalla madre dietro al bancone della macelleria, assieme ai fratelli, sullo stesso sgabello come il padre. Da cinque generazioni i Varvara si tramandano il sapere, continuano ancora a fare ogni passaggio della produzione partendo dalla selezione dei capi, per arrivare alla sezione dei vari tagli e alla rispettiva vendita. «Facciamo tutto noi», racconta Michele, «la campagna è la locomotiva, è la nostra terra che farà la differenza». Per loro rimangono fondamentali sia la filosofia di allevamento e cura degli animali sia l’importanza e la specificità della propria terra, Altamura, la Puglia e la vicina Basilicata, dove viene allevato il loro bestiame.

La vacca vecchia non fa solo buon brodo

Ci racconta della vacca vecchia, che una volta finito il periodo in cui può dare latte viene allevata e lasciata pascolare per altri 2 anni, brucare felicemente completando il suo ciclo di vita e dando carni particolarmente pregiate, perché «la razza non è importante, è importante la cura e la vita che facciamo fare a queste vacche, siano esse podoliche, frisone, pezzate o brune alpine…». L’agnello dolomitico lucano delle masserie della Basilicata dove si servono vive al pascolo, facendo movimento e nutrendosi di erbe locali. Tutti questi particolari donano alla carne sapori non replicabili.

La mucca pazza e il cambio di passo

Purtroppo le cose non vanno sempre come dovrebbero andare e negli anni 90 la mucca pazza, le aperture di supermercati e i primi centri commerciali complicano le cose mettendo in crisi la loro macelleria. Michele si laurea in ingegneria, si trasferisce in Trentino, ma pensa alla fatica e ai sacrifici che fanno i suoi in bottega. Comincia così a prendere forma l’idea di portare i loro prodotti nelle tavole di tutta Italia, collaborando con i grandi chef. Torna a casa e i suoi lo prendono per pazzo, ma è grazie alla sua follia e alle sue idee imprenditoriali che i Varvara cominceranno la loro escalation.

Gli chef scoprono Varvara

La svolta, avviene grazie al Pranzo Possibile 2016 evento organizzato a Borgo Egnazia a cui parteciparono molti chef famosi. Tra questi Domingo Schingaro, del ristornate stellato Due Camini, padrone di casa che già aveva avuto modo di provare le loro carni. Lì c’è anche Enrico Crippa che riconosce il valore dei loro prodotti e comincia servirli a Piazza Duomo ad Alba, tre stelle Michelin. «All’inizio non era semplice, lo chef Crippa era molto pignolo, ma è anche grazie a lui che abbiamo imparato e migliorato, e reso i nostri prodotti perfetti per l’alta cucina». Diventare fornitori di ristoranti rinomati ha scatenato un vero e proprio effetto passaparola: «Il telefono ha cominciato a suonare e gli ordini sono aumentati». Oggi i migliori chef d’Italia vogliono la loro carne. Il segreto? Il primo è il sacrificio, la difficoltà e l’impegno costante per essere sempre all’altezza, mantenendo la loro tradizione secolare (Michele non fa vacanza da 5 anni). Il secondo è l’importanza di chi con le schiene piegate continua a lavorare allevando il bestiame in maniera etica e sostenibile.

Oggi cosa si trova in bottega

Nella bottega di Altamura appesi alle pareti ci sono gli ordini e le destinazioni: Loreto, Milano, Roma, Alba, Lussemburgo… ogni giorno una partenza. Ma il banco è vuoto. La carne è nella cella, non si tiene prodotto in esposizione. Qui non si compra con gli occhi, la carne non viene mantenuta «bella da vedere», ma selezionata per essere buona da mangiare. A richiesta, viene preparata al momento, anche se in negozio oramai si vende il 10% del totale. Manzo, agnello, salsiccia, ma anche polli meravigliosi, venduti rigorosamente interi a 12€ al kg; ma di prima qualità. Nella vetrina invece la piccolissima produzione di salumi e insaccati che si trova solo in negozio.

Altamura: pane, lenticchie e dinosauri

Per chi volesse fare un giro nella loro cittadina, potrà anche godere di altri due prodotti tipici di Altamura: il pane DOP e la lenticchia IGP. Inoltre, una volta fatta la spesa, si può visitare la cattedrale di Santa Maria Assunta. Per gli amanti dell’archeologia c’è un museo dedicato all’homo neanderthalensis, rinvenuto in zona, e si possono andare a vedere le impronte dei dinosauri nella Cava Pontrelli. Spostandosi di poco, c’è Matera.

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Di Marco K. Bovio e Margo Schachter

La Pizzeria di Peppino Impastato a Cinisi

La Pizzeria di Peppino Impastato a Cinisi

Fra specialità della cucina siciliana e attività culturali, la pizzeria Impastato a Cinsi, in provincia di Palermo, non è solo una pizzeria, ma un simbolo della lotta alla mafia

A Peppino piaceva la sfincionella. Quella con pomodoro, cipolla e caciocavallo. «È quella che più rappresenta i gusti tradizionali siciliani, una pizza di grande carattere». Così ci racconta il fratello Giovanni Impastato, che ancora oggi gestisce la pizzeria di famiglia insieme alla moglie Felicia e alla figlia Maria Luisa. Ma sarebbe riduttivo chiamarla “solo” una pizzeria; negli anni, infatti, questo è diventato un luogo simbolo per l’antimafia, dove avvengono numerosi incontri in memoria di Peppino Impastato.

La nascita della pizzeria

Nel 1975 Luigi Impastato, padre di Giovanni e Peppino, decide di aprire un alimentari in un punto di passaggio importante, sulla Statale 113 a pochi chilometri da Cinisi e dall’Aeroporto Falcone e Borsellino di Punta Raisi. Eppure, nonostante si tratti di uno svincolo importante, con un passaggio continuo di persone, non c’era ancora nessun servizio o attività commerciale. Anche per questo il successo è immediato: diventa subito un luogo di ritrovo, si trasforma presto in edicola, tabacchi e poi in panineria, fino a diventare una pizzeria.
«È stata la prima pizzeria della zona e continua a essere il posto dove la gente viene per mangiare una buona pizza, in un ambiente familiare. Ma soprattutto è frequentata da persone sensibili alla nostra storia e al nostro impegno antimafia».

Giovanni Impastato. Foto di Carlo Manzo

Il papà, Luigi muore però nel 1977, dopo solo due anni dall’apertura, lasciando così la pizzeria in eredità ai figli. Dopo quel 9 maggio del 1978, è Giovanni ad occuparsene insieme alla moglie in cassa e alla figlia in sala. E nel tempo hanno cercato di renderlo un tempio dell’antimafia, sempre in collaborazione con Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, da visitare assolutamente.
«Per il resto non è cambiato molto, se non l’aggiunta di qualche piatto e di qualche pizza».

Che cosa si mangia

Inizialmente c’erano solo cinque pizze: Napoli, la preferita di Luigi, poi Margherita, Marinara, Quattro Stagioni e Romana con funghi, più il calzone. Negli anni sono aumentate sempre di più, per venire incontro alle esigenze delle persone che richiedevano delle novità, come ad esempio la Catamarano, una delle pizze che ha più successo oggi con bufala, funghi, pomodorini, crudo, scaglie di grana e rucola.

Foto di Carlo Manzo

I pizzaioli come Gaetano, che è qui da dieci anni, insieme a Felice e Daniele, sono rimasti sempre fedeli ad alcune costanti, come ad esempio la tipologia di pizza tipica siciliana, sottile e croccante, ben diversa da quella napoletana. In secondo luogo alla scelta di farine locali dell’entroterra siciliano e di altri prodotti tipici come il Caciocavallo di Cinisi dalle latterie della zona, famosa proprio per la vacca Cinisara. E infine alla tecnica di lievitazione naturale all’antica, con lievito madre, quello che qui viene chiamato in dialetto “lieviticchio”.
Ma non solo pizza: oggi alla Pizzeria Impastato si possono gustare anche vari antipasti tipici siciliani, come lo sfincione, le panelle, la caponata o altre specialità del giorno.

Non una pizzeria qualunque

Ma oltre al fatto di essere l’unica pizzeria della zona e di essere buona, questo posto è ovviamente molto di più. «La nostra pizzeria viene frequentata sia da clienti storici che vengono qui per mangiare, sia da persone sensibili alla nostra storia e al nostro impegno antimafia». Ogni anno vari i personaggi: da Marco Tullio Giordana, regista del film I Cento Passi, e l’attore Luigi Lo Cascio, a Salvatore, fratello di Borsellino; ma anche politici come Walter Veltroni, assessori, giornalisti. O anche semplicemente giovani e bambini che imparano la storia di Peppino a scuola e vengono qui per portare temi o disegni, come nel caso del piccolo Giulio, che abbiamo incontrato quando eravamo lì.

Foto di Carlo Manzo

Una delle attività principali che si svolge qui è la presentazione di libri, in primis dei numerosi scritti dal fratello, come l’ultimo appena uscito durante il lockdown: “Mio fratello, tutta una vita con Peppino”, in cui per la prima volta Giovanni racconta tutta la parte più intima e privata di una famiglia così legata al pubblico, con un tono familiare, come se fossimo anche noi un po’ in casa con loro. Ma poi anche tantissime altre iniziative come proiezioni, incontri, dibattiti, sempre con un pubblico legato alla storia di Peppino. Sempre lì, tutti seduti intorno a quell’ulivo centenario che si trova proprio al centro della pizzeria, fermo testimone dei tempi passati, forse simbolo di quelli futuri.

Foto di Carlo Manzo

Ricetta Biscotti della «tresca» – La Cucina Italiana

  • 460 g farina
  • 160 g zucchero
  • 130 g latte
  • 60 g olio di semi di girasole
  • 2 uova
  • limone
  • sale

Per la ricetta dei biscotti della «tresca», impastate la farina con le uova, 130 g di zucchero, il lievito, la scorza grattugiata di un imone, un pizzico di sale e 1 cucchiaio di latte. Aggiungete l’olio e il latte rimasto, poco per volta, continuando a impastare. Dividete l’impasto in palline da 30 g ciascuna. Rivestite una placca con carta da forno, adagiatevi le palline, schiacciandole bene per dare la forma di un biscotto rotondo, spolveratene la superficie con lo zucchero rimasto e infornate a 180 °C per 15-16 minuti.

Ricerche frequenti:

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