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Il patè di carote e ceci: una ricetta da provare subito

Il patè di carote e ceci: una ricetta da provare subito

Un patè di carote e ceci? Perché no? Il patè è una ricetta tipicamente francese a base di carne o pesce frullati insieme a una sostanza grassa, come il burro o un formaggio fresco, fino a diventare una crema spalmabile.
La nostra versione invece prevede un ortaggio e le proteine nobili dei ceci e del tofu.

La preparazione è semplice e veloce, ma la cottura è a bagnomaria per ottenere una consistenza ideale.
Potete utilizzare sia il comune tofu a solidità media sia un silken tofu (tofu morbido, e in tal caso non serve grattugiarlo), oppure il tofu affumicato se preferite un sapore più intenso.

Questo patè si presta a essere arricchito anche da funghi porcini secchi, o spezie come curry o curcuma.

Qualunque sia la vostra scelta siamo certi che il risultato sarà ottimo.

Il patè di carote e ceci

Difficoltà: facile
Tempo: 1h e 20 minuti

Ingredienti per 4 persone

  • 400 g di ceci lessati
  • 4 carote
  • 2 fette di pane raffermo
  • 4 cucchiai di salsa di soia
  • 100 g di tofu morbido
  • sale
  • pepe
  • olio extravergine d’oliva
  • semi di sesamo

Procedimento

L’olio extravergine ora possiamo farcelo da soli: ecco come

La Cucina Italiana

Si scalda ogni bicchiere con le mani, si annusa e qui si comincia. È il primo passaggio, che serve ad individuare i sentori olfattivi dell’olio: se è un “fruttato verde”, tipico delle olive frante a inizio maturazione, o “maturo”. Poi si passa all’assaggio vero e proprio, per capire se l’olio è “amaro”, come spesso succede con olive giovani e ricche di polifenoli, o “piccante” quando dà una sensazione pungente dietro la lunga (come accade con olive frante quando sono verdi). Poi l’olio si ingoia o si espelle (come fanno più spesso gli assaggiatori professionisti, che fanno centinaia di degustazioni l’anno), e infine si riflette sul retrogusto, che può essere dolce, erbaceo, ma anche sapere di mele, mandorle, o pomodoro (succede con gli oli piccanti). Il colore? Non è un fattore rilevante e partecipando all’esperienza scoprirete anche il perché.

Le 5 cultivar

L’operazione si ripete per cinque volte, perché cinque sono le cultivar che Fratelli Carli coltiva direttamente o acquista dai propri produttori di fiducia: la Taggiasca, tipica ligure, dolce e delicata, la Coratina, molto ricca di polifenoli e molto intensa nel sapore che invece è tipica della Puglia, la siciliana Biancolilla che è tra le più pregiate d’Italia e amate per il suo equilibrio. Infine la greca Athinolia che è un’antica cultivar che regala oli molto freschi e fruttati riscoperta proprio dall’azienda, e la spagnola Arbequina, dal sapore vellutato e armonico.

Perché provare

Scoprirle in una degustazione guidata non solo vi insegnerà a comprendere meglio il grande mondo che ruota intorno a uno degli alimenti cardine della dieta mediterranea, ma vi farà persino imparare qualcosa in più sui vostri gusti, perché dovrete riflettere prima di scegliere. La vostra bottiglia personalizzata, infatti, conterrà un blending tra le vostre cultivar preferite. A fine degustazione tornerete a casa anche con un attestato di partecipazione, e soprattutto molta più consapevolezza.

Come si partecipa

«Questo progetto nasce dal desiderio di condividere, in maniera semplice, le peculiarità e la ricchezza del lavoro di Fratelli Carli che, ogni giorno, crea oli dal profilo organolettico unico e caratteristico firmandoli con il proprio nome e certificandone ogni goccia», scrive Fratelli Carli nel presentarla. Le tappe dell’evento “L’Origine sei tu” sono 18, tra diverse città del Nord Italia, ogni sessione dura un’ora e ogni data prevede 4 sessioni con questi orari: 10:00, 11:30, 15:00, 17:00.
Il costo dell’esperienza è di euro 15, e per partecipare bisogna prenotare. Tutti i dettagli su www.oliocarli.it/lorigineseitu insieme alle date e altre info utili per partecipare.

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Che cos’è la farina bòna? Come si usa? Ieri sera, a MasterChef, i concorrenti, nella Golden Mystery Box, hanno trovato un assortimento di ingredienti di colore giallo: oltre a formaggio cheddar, finferli, senape, mela gialla, curcuma, maracuja e petit pâtisson (o zucchina patissone), c’era anche la farina bòna. Dal momento che è ancora poco conosciuta, però, gli aspiranti chef in gara non sapevano bene come poterla utilizzare.

Che cos’è la farina bòna?

In effetti, la farina bona – un prodotto tradizionale della Valle Onsernone, una delle più impervie del Canton Ticino, a pochi chilometri da Locarno – per qualche decennio è rimasta nel dimenticatoio. Fino a quando Ilario Garbani Marcantini, maestro di scuola elementare a Intragna, insieme al Museo Onsernonese, ha riscoperto e valorizzato questa preziosa farina di granoturco, che si ottiene macinando molto finemente la granella tostata.

La sua storia

Si racconta che la prima a produrla fu una mugnaia di Vergeletto di nome Annunziata Terribilini, detta Nunzia, che faceva con il mais (lo stesso che viene utilizzato per la produzione di polenta, proveniente dal Piano di Magadino) quello che, tradizionalmente, si faceva con la segale: una bella tostatura in una padella fino a fare scoppiare i chicchi, che poi macinava finemente per ottenere una farina dal gusto unico. La farina bona si caratterizza anche per il tipo di macinatura, molto fine, grazie all’impiego di macine speciali, lisce, come quelle dei mulini, ormai in rovina, di Vergeletto.

Un tempo, la farina bòna faceva parte dell’alimentazione degli onsernonesi, che la consumavano accompagnata a latte, freddo o caldo, acqua o vino, o sotto forma di minestra, la poltina. Ma il cambiamento delle abitudini alimentari del secondo Dopoguerra ha ridotto progressivamente la presenza di questo ingrediente. Alla fine degli anni ’60, anche l’ultimo mugnaio onsernonese ha lasciato il suo lavoro, e della farina bona non si è più parlato per tanto tempo. Solo nel 1991 e nel 2013 sono stati riavviati i mulini di Loco e Vergeletto, che hanno ripreso a macinarla.

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