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Pasta al burro e parmigiano fatta bene in 7 consigli da chef

La Cucina Italiana

Come tutte le ricette con pochi ingredienti, quei pochi ingredienti devono essere ottimi, eccezionali. Qui abbiamo solo pasta, burro e parmigiano, a cui si aggiunge l’acqua di cottura. Il parmigiano deve avere una buona stagionatura, almeno 24 mesi, per accentuare la sapidità. Va grattato espresso, per non perdere sapori e profumi. Il burro deve essere di buona qualità (non salato), tagliato a pezzetti, quindi non tenendo un blocco unico, e preferibilmente ammorbidito prima mettendolo in una ciotola capiente da appoggiare vicino ai fornelli o tirare con anticipo fuori dal frigo. Non va mai fatto fondere. La pasta deve essere rigorosamente lunga, perché agitandola riesce a creare la cremina perfetta con amido e grassi. Per un risultato ideale sono sconsigliate paste corte ma anche pasta all’uovo. Meglio uno spaghetto lungo e robusto.

2. Le dosi

Nelle dosi c’è sicuramente uno dei più grandi interrogativi. Il rischio potrebbe essere che, per rimanere leggeri, si sia avari con gli ingredienti, creando dunque un risultato poco cremoso e appetitoso, ma anche poco saporito. Insomma se si sceglie di fare questa ricetta, meglio farla al massimo delle sue potenzialità o cambiare piatto. Per due persone possiamo considerare 200 grammi di pasta lunga, 80 grammi di burro, 80 grammi di parmigiano grattato più qualcosa da mettere sul piatto. Infine, un paio di mestoli di acqua di cottura.

3. La pentola

Rispetto alla cottura di un qualsiasi tipo di pasta, qui possiamo aiutarci mettendo una pentola più piccola, anche un tegame, con meno acqua e un buon livello di salatura. Questo permette che ci sia più amido, che ci serve per fare una crema più corposa. In sostanza la pasta va cotta in un pochino meno acqua rispetto al solito.

4. L’ordine degli ingredienti

Mai mettere gli ingredienti a caso. Consigliabile invece seguire un giusto ordine. La pasta va versata nella parte grassa, quindi nel burro, quando è al dente. A questo punto va aggiunta una leggera quantità d’acqua di cottura, solo alla fine si dovrà mettere il parmigiano e rigorosamente fuori dal fuoco. Poi si manteca ancora, e si aggiunge infine sul piatto altro parmigiano. Riassumendo? Mai il parmigiano prima del burro.

5. Mantecatura

MasterChef 13: 5 errori da evitare per non essere eliminati

MasterChef 13: 5 errori da evitare per non essere eliminati

I preamboli sono finiti, e la gara di MasterChef è davvero entrata nel vivo: ieri sera, per la prima volta in questa nuova edizione del programma, due delle aspiranti chef hanno dovuto abbandonare la brigata.

Sono Chù e Fiorenza, che hanno posato il grembiule rispettivamente all’Invention Test e al Pressure Test. Alla studentessa ventiduenne originaria del Madagascar (che ora vive a Parma), entrata nella masterclass grazie a un pan di spagna con crema pasticciera al limone, crema chantilly e scorze di limone disidratate, in omaggio al papà adottivo, non è stata perdonata una testa d’aglio lasciata intera nel piatto (un pesce azzurro con asparagi bianchi su salsa di squacquerone). Fiorenza, 31enne tecnico di radiologia della provincia di Napoli, ha preparato una pasta ripiena condita di troppa «rabbia» – come lei stessa ha spiegato ai giudici Antonino Cannavacciuolo, Bruno Barbieri e Giorgio Locatelli – che le ha fatto perdere di vista l’armonia del piatto.

Ma sbagliando si impara, e questo vale anche (e forse soprattutto) in cucina. Dagli errori compiuti dai concorrenti in queste prime puntate di MasterChef, possiamo ricavare un manualetto di istruzioni su che cosa non bisogna fare se si vuole rimanere più a lungo possibile in gara.

La lepre in salmì della bisnonna Fanny: ricetta di famiglia

La lepre in salmì della bisnonna Fanny: ricetta di famiglia

Lepre in salmì, ma non solo. C’è una bella atmosfera quando si arriva a casa della signora Annapaola Zandomeneghi, vicino a Verona. «Ne ho imparate di ricette da voi». Da grande lettrice della nostra rivista, è così che ci accoglie e poi ci mostra la collezione con orgoglio (suo e, ve lo assicuro, anche nostro). Un giardino curato, un salotto immacolato, una bellissima tovaglia con tante firme: sono quelle delle persone che hanno mangiato a questo desco, che vengono poi ricamate, e fra poco ci sarà anche la mia. E poi c’è la lepre in salmì sul fuoco da una parte e la polenta dall’altra. La signora Annapaola non si scompone, anche perché con un passato di medico neurologo in ospedale ci vuole ben altro. La cucina è affollata, ci sono i figli Federico, che stappa una bottiglia di vino, ed Emanuela, che si dedica a sorvegliare il cibo, mentre sua figlia Adele, studentessa di medicina, sistema le torte appena tolte dal forno. Sono d’ispirazione dell’Alto Adige perché il padre Bruno è di Bolzano e le ha trasmesso l’arte della Linzer. Anche se oggi è la lepre la grande protagonista. «È una ricetta ricorrente in questa casa, che prepariamo quando siamo tra noi, non in giorni come Natale, per esempio, perché non è un piatto che si può mangiare in tante persone», spiega Emanuela, professoressa di psicologia in un’università milanese. «Mio padre Albino» continua, «aveva una nonna di nome Fanny che cucinava la lepre; lei ha trasmesso la ricetta a mia nonna Adele e poi a mia madre, che un giorno la darà a noi. Diciamo che sta scendendo lungo la genealogia delle donne della famiglia». Il profumo è ovunque in questa cucina. E la lepre richiede tanto lavoro, ma qui nessuno si spaventa. Ci stiamo per sedere a tavola, tutti insieme, come usa fare nel nostro bel Paese, giovani e meno giovani, con la ritualità che caratterizza il pasto all’italiana. La lepre è buonissima, con la giusta punta di acidità, la polenta morbida come si richiede a un piatto della tradizione che non cambierà mai. La signora Annapaola è felice di avere tutti riuniti intorno a sé. Grazie, signora, di avermi fatto sentire parte della famiglia.

Lepre della bisnonna Fanny, come si prepara

«Seziono una lepre perfettamente pulita in tocchetti da mezzo etto ciascuno. Li raccolgo in una capiente terrina, li copro a filo con acqua e un bicchiere di aceto e aggiungo una manciata di sale, qualche rametto di rosmarino e di salvia, grani di pepe e un po’ di cannella in stecca. Lascio marinare al fresco per dodici ore; alla fine sciacquo molto bene la lepre. Trito un etto di salame artigianale a grana grossa e un etto di lardo e li rosolo in un grande tegame di coccio con un filo di olio; quando il soffritto è pronto, unisco i tocchetti di lepre, li lascio insaporire e, non appena cominciano ad asciugarsi, aggiungo grani di pepe, pezzetti di cannella, qualche chiodo di garofano, noce moscata, una manciata di mandorle a pezzetti e una di uvetta. Bagno con un paio di bicchieri di brodo, copro con il coperchio e lascio cuocere dolcemente per un paio di ore, aggiungendo via via, se occorre, un po’ di brodo. Alla fine della cottura, quando la carne si staccherà facilmente dagli ossi, spolpo con molta cura la lepre, sfilaccio la carne e la rimetto nel tegame di coccio facendo attenzione che nel sugo rimasto non vi siano pezzettini di ossi; sfumo con un bicchiere di vino bianco; quando il vino è evaporato mescolo tutto con una spolverata di grana grattugiato. La lepre è pronta e la porto in tavola con la polenta gialla».

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