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Ragù, voi preferite quello bolognese o napoletano?

La Cucina Italiana

Perizia e amore sono le parole che accomunano i due grandi ragù italiani: quello alla bolognese e quello napoletano. Tutti e due esigono che gli ingredienti siano dosati con sapienza e lasciati cuocere a lungo. Poi arrivano le differenze. A cominciare dalla nascita. Una cosa è certa: la parola ragù deriva dal francese ragoût, che indicava un piatto di carne stufato in un intingolo, diventato di moda sulle tavole aristocratiche sparse lungo lo Stivale in ossequio alla cucina d’Oltralpe. Era questo il ragoût a Napoli alla corte di Ferdinando IV di Borbone nella seconda metà del Settecento; ma, negli stessi anni, per il cuoco di Luigi Chiaramonti, vescovo di Imola, e poi papa Pio VII, era invece un condimento. Ambedue comunque senza pomodoro. La prima descrizione dei «maccheroni alla Napolitana» in cui, oltre a pepe, parmigiano e sugo di carne, l’autore consiglia un’aggiunta di salsa di pomodoro è quella, alla fine del Settecento di L’Apicio Moderno di Francesco Leonardi. In buona sostanza siamo davanti a due concetti diversi di ragù: quello napoletano cucinato a fuoco bassissimo con un pezzo di carne intera cotta in una passata e in un concentrato di pomodoro, che funge, dopo aver condito la pasta, da secondo piatto; e quello alla bolognese che è un intingolo a base di carne trita, dove il concentrato è solo una punta. 

I due ragù

Due intingoli alla pari quanto a ghiottoneria, se non fosse che il ragù napoletano ha dalla sua almeno un paio di leggende. Tra cui quella riportata da Matilde Serao, che colloca la nascita del ragù nel 1220, durante il regno di Federico II di Svevia. Impossibile, naturalmente, dato che il pomodoro è arrivato in Italia a metà del Cinquecento, ma le leggende non tengono conto di queste piccolezze. Poi però la reverenza che circonda la salsa principe della tavola domenicale partenopea continua. «Il ragù non si cuoce, si consegue, non è una salsa ma la storia e il poema di una salsa», scrive tra le nebbie milanesi degli anni Quaranta Giuseppe Marotta da nostalgico della sua città natale in L’oro di Napoli. Eduardo De Filippo nella commedia Sabato, domenica e lunedì, racconta la ricetta come una fiaba: «Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta…». Raffaele Bracale, uno dei massimi esperti contemporanei di gastronomia napoletana, annota: i ragù migliori sono quelli ricavati dalle braciole di locena, taglio di scarto del manzo, imbottite con sale, pepe, aglio, uva passa, pinoli, caciocavallo a cubetti.

Proibito l’uso del maiale se non unito al manzo. La salsa deve «peppiare» cioè produrre, sobbollendo, il rumore di una tirata di pipa. Terminata la cottura della carne nel concentrato di pomodoro la si toglie e si prosegue fino a ottenere la salsa scura e lucidissima destinata alle zite spezzate a mano. Dopo, si mangia la braciola con un contorno di friarielli, saltati in padella con aglio, olio e peperoncino. Il capolavoro esige sette ore di attenzione continua, tanto che il ragù migliore è quello detto «dei portieri», i soli che possono attendere con pari solerzia alla custodia del palazzo e a quella del sugo.

Per i bolognesi, meno lirici, ma buongustai a tutta prova, il ragù resta a lungo un intingolo bianco che trova la sua forma ufficiale nell’autorevolezza di Pellegrino Artusi che gli dedica la ricetta n. 87 di La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. L’autore ci dice che per questa minestra i bolognesi fanno uso dei «così detti denti di cavallo di mezzana grandezza» e raccomanda, a sorpresa, che siano di sfoglia alquanto grossa, di grano duro, e lasciati al dente. La carne consigliata è la vitella, più una parte di carnesecca (cioè pancetta stagionata), burro, parmigiano, un pizzico di farina, la cipolla e gli odori, un po’ di brodo, pepe, noce moscata, e, per un sovrappiù di sapore, funghi secchi, fettine di tartufo, fegatini. Infine, «per renderli più delicati», panna. È il sugo bianco destinato in seguito a condire le tagliatelle tirate col matterello dalle mitiche «rezdore» emiliane. La ricetta successiva quanto ad autorevolezza e rigore risale alla sua certificazione, depositata nel 1982 alla Camera di Commercio dalla Delegazione di Bologna dell’Accademia Italiana della Cucina, dove è registrata per la prima volta la ricetta del «Ragù alla bolognese». 

Ravioli alla bolognese, la ricetta di Massimiliano Alajmo

La Cucina Italiana

I ravioli alla bolognese cucinati dallo chef stellato Massimiliano Alajmo come ambasciatori del gusto tutto italiano a Marrakesh, quella che un tempo era la città imperiale del Marocco Occidentale.

Infatti, nel mese di giugno il Royal Mansour di Marrakech, esclusivo hotel da mille e una notte, ha presentato a giornalisti e ospiti da tutto il mondo gli chef che curano la cucina stellata dei suoi ristoranti, tra i quali figura anche Massimiliano Alajmo. 

Durante la due giorni gastronomica, si sono svolte alcune cooking class, tra cui quella curata proprio da Alajmo, che nell’hotel marocchino ha aperto nel 2019 il suo quattordicesimo ristorante, il Sesamo. 

Durante la “lezione dimostrativa”, chef Alajmo ha preparato la sua versione dei ravioli alla bolognese: pasta fresca, colorata, riempita con un ragù alla bolognese. Il piatto è stato completato con altre piccole pennellate di Italia: un dadino di mozzarella, un pizzico di “pesto”, una besciamella alla ricotta. Un concentrato di Italia, insomma, che ha conquistato gli “allievi ” della cooking class, all’opera nella stesura della pasta e nella chiusura dei ravioli. 

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