Giorgio Panariello in copertina su Vanity Fair

Giorgio Panariello in copertina su Vanity Fair

Amore, perdono, memoria e speranza. Giorgio Panariello racconta a Vanity Fair una storia di dolore e riscatto

Amore, perdono, memoria, speranza: nel numero di Vanity Fair in edicola dal 28 ottobre il comico toscano Giorgio Panariello ricorda una storia di dolore e riscatto, quella di suo fratello Franco trovato morto nel 2011.

“Oggi, purtroppo, la situazione del virus ci rimette al punto di partenza, in un rewind che ha il sapore amaro della sconfitta. Forse anche per questo, in questo numero di Vanity Fair abbiamo scelto di raccontarvi una storia eccezionale, quella di Giorgio Panariello e di suo fratello Franco”, scrive nel suo editoriale il direttore Simone Marchetti. “Nell’intervista che ci ha rilasciato in esclusiva, Giorgio Panariello, sostiene che nei momenti difficili «la differenza tra il precipitare dalla scarpata o fermarsi sulla soglia del burrone è minima». Ecco, noi pensiamo che in quella minima differenza, in quella crepa che si disegna tra la speranza e la sconfitta stia l’unico modo di leggere questo periodo così duro.”

«Volevo rendere giustizia a Franco e assumermi le mie responsabilità» dice il comico toscano in merito al libro pubblicato da Mondadori Io sono mio fratello in libreria dal 3 novembre. Pagine che raccontano la vita e la morte del fratello Franco e di come, a volte, a salvarti dall’abisso siano solo piccoli istanti di fortuna.

Panariello ricorda che ritrovarono suo fratello in una notte d’inverno «buttato come fosse un materasso usato, tra i cespugli davanti al mare di Viareggio» e giura che il giorno del funerale a Montignoso «piangevano tutti quelli che Franco aveva derubato, insultato, deluso e tradito. Persone che non avevano mai smesso di volergli bene perché, a esclusione di se stesso, Franco non aveva mai fatto del male a nessuno».

Si disse che nel 2011 Franco fosse morto per overdose e si scoprì invece, dopo un penoso processo, che la vera causa era stato l’abbandono di un uomo «per vigliaccheria». Tre persone con le quali si era sentito male mentre era con loro a cena lo avevano scaricato da una macchina e il suo cuore aveva smesso di battere per ipotermia.

«Tra me e Franco la differenza l’ha fatta la fortuna», dice Giorgio. «Ho avuto soltanto più culo di lui, ma Franco avrei potuto essere io. Nessuno dei due aveva mai saputo chi fosse nostro padre e mia madre, che ci aveva messi al mondo troppo in fretta, non era stata in grado di assolvere alla sua funzione. Io, nato un anno prima di lui, venni affidato ai nonni. Lui finì presto in collegio senza incontrare affetto e attenzioni. A Franco, nella vita, è mancato soprattutto l’amore».
In merito al fatto che Franco avrebbe potuto essere lui, dice: «Ci andai vicino, davvero vicino perché nel tentativo di stargli accanto mi stavo trasformando proprio in Franco. La realtà mi pesava. Stavo bene solo con il vino e la canna in bocca. Le cose stavano andando molto male. Una sera mi misero davanti l’eroina. Avrei dovuto sniffarla e l’avrei sicuramente fatto, forse per sfida idiota o forse per dimostrargli che tra il diventare dipendenti o il non esserlo la differenza era soltanto nella forza di volontà. A un certo punto vidi spuntare un accendino, poi un cucchiaio, infine un cristallo e capii a cosa stavo andando incontro. Uscii di corsa da quella casa e probabilmente mi salvai la vita».

Con grande onestà ammette che il fratello per lui è stata anche un peso «Lui aveva la sensazione di avere un fratello ingombrante e la stessa sensazione abbracciava anche me, ma è chiaro che un fratello in quelle condizioni era anche una zavorra: per fare il mio mestiere devi avere la testa libera». Aggiunge poi: «Quando non vedevo Franco l’ansia diminuiva, ma poi subentravano i sensi di colpa».

E quando il vice direttore di Vanity Fair Malcom Pagani gli chiede se ha scritto questo libro per espiarli risponde: «Non c’è niente che ti freghi come il senso di colpa: ho fatto molti sbagli nei confronti di Franco, anche e soprattutto per il senso di colpa. Chiunque abbia in casa una persona che fa uso di stupefacenti ha un senso di colpa perenne. Mi sentivo in colpa quando foraggiavo i suoi vizi, quando gli negavo il denaro e anche quando le malelingue sussurravano: “Ma come, con un fratello così quello pensa a far ridere?”.

Ora Franco non c’è più. «E non riesco a crederci. Dopo essere uscito da San Patrignano, ci ricascò. Andammo allora nella comunità di Don Mazzi e, dopo tre anni lì, Franco ne uscì totalmente pulito. Aveva avuto l’ultima possibilità della sua vita e l’aveva colta. Non so se fosse veramente felice, ma stava bene. Aveva voglia di vivere e aveva compreso quanto fosse meraviglioso volare con i piedi per terra. Si era trasferito a Pietrasanta, aveva trovato un lavoro stabile e mi venne a trovare alla vigilia di Natale. Passammo una serata bellissima, a ricordare le follie fatte insieme e poi ci abbracciammo. Si sistemò la sciarpa, fece un’ultima risata delle sue, con la voce roca mi salutò e lo guardai sparire con la sua andatura sempre in pencolo sistemandosi il ciuffo. Fu l’ultima volta che lo vidi».

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